Una carrellata di figure ed eventi emblematici che
sono apparsi in vari punti della Città e ne raccontano pillole di storia. Una
“linea” del ricordo realizzato con le illustrazioni di Lucio
Schiavon e l'approfondimento storico di Alberto Toso
Fei, per festeggiare i 1600 anni dalla nascita di Venezia.
Un originale gioco di memoria, un percorso tra passato
e presente, che nei primi otto manifesti protagonisti di questo
viaggio nel tempo e nella storia della Serenissima Repubblica
raffigurano Attila, Caterina Corner, le Crociate, Enrico Dandolo, Marco
Polo, Maria Argyropoulania, Piero Querini e San Marco.
ATTILA
Come ogni altro creatore di imperi, fu visto come un invasore da chi subì
le sue avanzate, e come un condottiero dalle sue genti; comunque la si guardi,
però, l'epopea di Attila – l'Unno, il “Flagello di Dio” – è entrata a tal punto
nel mito da trascendere la storia: la sua volontà di conquista e di
annientamento fu smisurata a un punto tale – e qui la sua vicenda inizia a
farsi leggenda – da non lasciare più ricrescere un solo filo d’erba al suo
passaggio.
E se oggi la storiografia ufficiale tende a escludere che Venezia sia
effettivamente nata a seguito del trasferimento in laguna da parte dei
fuggiaschi dell'impero romano (l'avanzata Unna avvenne nel 452, ma Roma aveva
già conosciuto l’onta della distruttiva conquista dei Visigoti di Alarico,
mentre alle sue porte si appressavano i Vandali di Genserico), certamente i
primi insediamenti sorti sulle isole a nord ne ricevettero un impulso. E si
ammantarono per sempre della sua leggenda: come quella dell'esodo stesso,
avvenuta a seguito di una visione da parte del vescovo di Altino, salito sulla
torre più alta della città per ricevere un segno divino; oppure l'isola
chiamata Monte dell'Oro, nel cui fango si sarebbe inabissato il carro degli
Unni lanciatisi all'inseguimento dei fuggiaschi, pieno del prezioso metallo
razziato dai barbari. O come, infine, il “Trono di Attila”, un grande seggio di
marmo posto tra l’erba a Torcello, lasciato per la gioia di bimbi e visitatori
dal re Unno in ritirata…
SAN MARCO
Pax Tibi Marce Evangelista Meus. È in una Venezia ancora inesistente, fatta
di poche isole fangose sulle quali trova riparo l'imbarcazione che lo
trasporta, che San Marco viene salutato dall'angelo con le parole leggendarie
che compariranno in futuro su ogni emblema della Serenissima. «Un giorno – gli
dice ancora il messaggero – farai ritorno su queste isole (Hic Requiescet
Corpus Tuum, qui riposerà il tuo corpo)». Marco è in viaggio di
evangelizzazione, forse sta tornando da Aquileia; è il primo ad avere avuto
l'intuizione di trasformare in parola scritta le gesta di Gesù, lui che era
solo un ragazzino quando il Cristo predicava in Palestina.
Questo tempo del ritorno arriva nell’828, quando il corpo di San Marco arriva a
Venezia grazie a due mercanti, Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, che ne
trafugano le spoglie da Alessandria d’Egitto. Per superare la dogana, depongono
il corpo in una grande cesta e lo ricoprono di carne di maiale, considerata
immonda dai saraceni. Tutto come previsto: le guardie si ritraggono inorridite,
il carico può salpare. Ancora oggi questo espediente viene raccontato sui
mosaici bizantini di San Marco come in un fumetto: Kanzir, si legge sopra le
teste delle guardie; maiale, ma anche schifo, ribrezzo. La nave arriva a
Venezia il 31 gennaio: da quel momento, nel renderlo patrono della città e
nell’incarnarne il simbolo, presentandolo in ogni documento ufficiale,
nell’arte, nel vessillo, Venezia diventa un tutt’uno con l’evangelista. Diventa
il leone alato.
MARIA ARGYROPOULAINA
Si può dare scandalo perché si porta il cibo alla bocca con una forchetta,
e si usa il profumo per rendere gradevole l'odore della propria pelle? In
effetti, se l'anno è il 1004 e sei una principessa bizantina in trasferta, è
facile che ti possa accadere. Però, come spesso succede, a tanto scandalo
corrispose alla fine anche tanta attrattiva. Maria Argyropoulaina, nipote
dell'imperatore di Bisanzio Basilio II, arrivò a Venezia quell'anno, per essere
data in moglie a Giovanni Orseolo, figlio diciannovenne del doge Pietro II.
Una unione politica che doveva sancire la pace e la prosperità tra le due
nazioni, che portò però con sé alcuni effetti collaterali imprevedibili: Maria,
abituata alla molle vita di corte, amava profumarsi la pelle con essenze
sofisticate e costose; ma – cosa ancora più scandalosa – non portava mai il
cibo alla bocca con le mani, ma lo faceva utilizzando un piccolo arnese dotato
di punte, tutto d’oro.
Ecco come Venezia conobbe l’uso della forchetta, primo fra gli stati
europei! Quella di Maria Argyropoulaina, infatti, dopo lo scandalo iniziale fu
una eredità presto accettata, anche nel nome: la parola piròn che, in greco
come in veneziano, indica la forchetta (il cui nome italiano deriva invece dal
latino furca, ovvero forcone). Non solo, i Veneziani subodorarono (è ben il
caso di dire) l'affare anche per la questione del profumo, che da allora in poi
divenne un'arte redditizia che rese la Serenissima un importantissimo centro di
produzione.
CROCIATE
Se la guerra, da che mondo è mondo, per la maggioranza degli umani
significa morte e distruzione, per altri si tratta di buoni affari, e i
veneziani gli affari li hanno sempre saputi fare. E le crociate, che nei secoli
in cui si svolsero per molti rappresentarono una ideale riconquista dei luoghi
della cristianità, per molti altri furono occasione di arricchimento o di
miglior posizionamento politico internazionale. Per Venezia fu entrambe le
cose. Se nel corso delle prime tre
crociate infatti (tra il 1085 e il 1189) i veneziani poterono accumulare
notevoli ricchezze con le razzie ma soprattutto col controllo dei commerci in
diverse aree del Levante (per non parlare dell'incredibile mercato di reliquie
che da allora imperversò in laguna così come in altri luoghi d'Europa), fu con
la quarta crociata del 1204 che la Serenissima diede un impulso determinante e
definitivo alla sua influenza nel Mediterraneo orientale, risolvendo con un
colpo di mano il suo annoso e ambiguo rapporto con Bisanzio.
La quarta crociata (al netto del massacro perpetrato ai danni della
popolazione civile) fu machiavellisticamente un capolavoro di spregiudicatezza;
guidata dai veneziani attraverso il doge Enrico Dandolo – e ben lungi dal
liberare la Terrasanta – permise alla Repubblica di trarre dei vantaggi enormi.
Venezia si impossesserà di “un quarto e mezzo dell'Impero”: isole, porti,
fortezze; in città arrivarono – tra gli altri – la quadriga di San Marco, i
Tetrarchi, la campana Marangona... fu il vero inizio del suo potere marittimo.
ENRICO DANDOLO
Quando fu eletto al dogado, il 21 giugno del 1192, Enrico Dandolo era decisamente
vecchio: aveva circa 85 anni, età molto più che ragguardevole per l'epoca in
cui visse, e oltre a questo – se non era già completamente cieco (secondo una
leggenda era stato fatto abbacinare dall'imperatore d'Oriente, per averlo osato
contraddire) – doveva sicuramente vederci molto male. Eppure l'età avanzata e
la menomazione non solo gli permisero di vivere altri tredici anni, ma non gli
impedirono nemmeno di essere uno dei dogi più scaltri e decisionisti
dell'intera storia della Serenissima, capace di conquistare Costantinopoli nel
corso della quarta crociata.
Fu il suo capolavoro diplomatico e militare. Quando, al momento di partire,
le truppe crociate non furono in grado di pagare i veneziani per i loro
servigi, ottenne in cambio di riconquistare Zara ribelle; fu durante l'assedio
alla città che Alessio IV, appena spodestato dal trono di Costantinopoli,
chiese aiuto per riconquistare il potere, promettendo denaro e terre. Dandolo
guidò con abilità questo momento, e benché ultranovantenne non esitò a
combattere in prima fila sotto le mura della città. Enrico Dandolo non tornò più a Venezia: morì a 98 anni nel 1205 e
fu sepolto nel matroneo imperiale della basilica di Santa Sofia, primo e ultimo
uomo a esservi tumulato. Secondo una versione non suffragata da testimonianze
storiche, dopo la conquista della città da parte dei turchi nel 1453, la sua
tomba fu aperta e le sue ossa furono gettate in pasto ai cani.
MARCO POLO
Il suo “Milione” è forse il testo scritto da un veneziano più conosciuto al
mondo, e sebbene non sia stato l'unico mercante della Serenissima a raggiungere
l'India e la Cina, il fatto che abbia lasciato un libro di memorie così vivide
rendono Marco Polo l'archetipo della figura del viaggiatore, e sicuramente uno
degli esploratori più noti di tutti i tempi. Furono le sue descrizioni dell'Asia
a ispirare Cristoforo Colombo. Nel
1271 seguì il padre Niccolò e lo zio Matteo quando aveva circa diciassette
anni, dopo che loro erano già stati alla corte di Kubilai Khan ed erano tornati
a Venezia dopo un viaggio durato nove anni; lui in Cina di anni ne rimase
diciassette, fatti di missioni e cariche governative, responsabilità e
onorificenze: fece ritorno a Venezia ventiquattro anni dopo essere partito, il
9 novembre 1295. Tre anni più tardi
fu fatto prigioniero dai genovesi. Ne nacque una lunga prigionia durante la
quale Polo dettò le sue memorie a un compagno di detenzione, Rustichello da
Pisa. Alcune delle informazioni contenute nell'opera furono utilizzate da fra
Mauro nella realizzazione del suo celebre mappamondo quattrocentesco; a
Siviglia si conserva una copia che riporterebbe delle note scritte da
Cristoforo Colombo di suo pugno. Nel
1300 Polo sposò la patrizia veneziana Donata Badoer dalla quale ebbe le figlie
Fantina, Belella e Moreta. Morì nel giugno del 1323; “non ho raccontato neppure
la metà di ciò che ho visto, perché sapevo che nessuno ci avrebbe
creduto", avrebbe detto sul letto di morte.
PIETRO QUERINI
Fu signore di due feudi nell'allora isola di Candia (come i veneziani
chiamavano Creta), celebri per la produzione di vini di Malvasia, che
commerciava coi mercati nord europei. Soprattutto, Pietro Querini fu lo
scopritore, in maniera rocambolesca e casuale, di uno dei cibi prediletti dai
veneziani, il baccalà, nel quale si imbatté a seguito di un rovinoso naufragio
avvenuto nell'inverno del 1431 e che da allora in poi – introdotto nelle
dispense dei veneziani – non ne uscì mai più. Il 25 aprile 1431 la nave comandata da Querini salpò da Creta con
sessantotto marinai a bordo, stipata di vino, spezie, cotone e altre mercanzie.
Superato il capo di Finisterre, a metà settembre, l'imbarcazione fu però
colpita da una serie di violentissime tempeste che la trascinarono verso nord.
Due mesi più tardi, solo sedici uomini toccarono terra su uno scoglio delle
isole Lofoten, un arcipelago oggi appartenente alla Norvegia a nord del Circolo
Polare Artico, e furono portati in salvo da alcuni pescatori di Røst sulla loro
isola. La piccola comunità, 120
persone che vivevano in una dozzina di case con una grande libertà di costumi
(le donne giacevano senza problemi con loro quando i mariti erano fuori a
pesca), colpì profondamente i veneziani, che rimasero per 101 giorni in quello
che doveva sembrare loro il paradiso terrestre, finché la maggioranza decise di
fare ritorno a casa. Querini arrivò a Venezia il 12 ottobre del 1432. Nella sua
relazione non esitò a presentare al Maggior Consiglio anche la sua scoperta più
importante: il baccalà.
CATERINA CORNER
Chi non ha mai sentito parlare almeno una volta di Caterina Corner, la
Regina di Cipro? Tutto accadde nel 1468, quando la giovane veneziana sposò per
procura Giacomo II da Lusignano dopo che l’uomo, sovrano di Cipro, se ne era
innamorato avendone visto soltanto un ritratto. In verità si trattò di un
matrimonio combinato dalla necessità di difendere l'isola dai suoi molti nemici
mettendosi sotto la protezione della Serenissima. La giovane veneziana sbarcò
sull’isola quattro anni più tardi, giusto in tempo per rimanere incinta e
diventare vedova senza che re Giacomo avesse potuto nemmeno vedere nascere suo
figlio. Il bambino, Giacomo III, non sopravvisse a lungo al padre: racconta la
leggenda che l’erede neonato fu avvelenato dai veneziani, nel 1474, allo scopo
di ottenere il controllo dell’isola. La storia racconta invece come perì di
febbri malariche. Caterina salì al
trono e governò fino al 1489, quando fu indotta dalla famiglia d’origine a
cedere Cipro alla Serenissima, ottenendo in cambio la signoria di Asolo, nel
trevigiano, dove si ritirò con la sua corte di regina. Sulla rocca la Corner
aveva gli stessi poteri del doge. Unici limiti: non poteva far subire ai
sudditi nessun onere o angheria e non poteva ospitare chi non fosse gradito al
doge. Caterina si circondò di artisti e letterati, tra cui i pittori Giorgione
e Lorenzo Lotto e l'umanista Pietro Bembo, che vi ambientò una sua opera, “Gli
Asolani”. Morì a Venezia il 10 luglio 1510. Oggi la sua tomba sontuosa si trova
nella chiesa di San Salvador.